lunedì 14 novembre 2011

ESPERIENZA IN UN OSPEDALE DI FRONTIERA DELLA GRECIA

Lunedì scorso sono caduto da quasi tre metri d’altezza ma per fortuna non mi sono fatto relativamente troppo male, “solo” una microfrattura al gomito destro: tre settimane di gesso più altre due per il recupero. Ovviamente il tema di questo racconto di mondo non è la mia caduta, sebbene avrebbe fatto ridere in molti, ma l’interessante esperienza successiva, quella nel sistema sanitario di questa zona dei Balcani ai confini della Grecia e dell’Unione Europea. 
“Non è che non ci siano regole, solo non vengono rispettate”. Le visite ai paziente, per esempio, sono ammesse dalle 18 alle 20 ma nella pratica puoi entrare quando vuoi. I miei amici l’hanno fatto anche fino alle 23.30, oltre che durante ogni orario del mattino e del pomeriggio. Tutti lo fanno, e ovviamente i parenti per primi. La mamma del mio compagno di stanza si ferma più di mezza giornata, il padre viene alla mattina, alla sera e alla sera tardi; la moglie del signore anziano di fronte a me sta 24 ore su 24 col marito e dorme addirittura nel letto di fianco che dovrebbe essere riservato per un eventuale paziente. Le visite arrivano per tutti e due, si separano solo per quel paio di minuti al giorno quando viene il primario. Anche a lei le infermiere portano sempre pasti e colazioni.
La mia stanza, il corridoio, le sale, gli uffici, gli ascensori. Tutto assieme sembra un misto tra un film neorealista e un antologia dei Balcani: attrezzature vecchie e contate, struttura decadente, personale spesso insufficiente nel servizio, organizzazione scarsa, finestre aperte per fumare, ambulanze con musica a palla, come è successo nel mio caso, e molto altro...  ma anche gente che va e che viene sempre col sorriso sulle labbra e con la voglia di parlare con gli sconosciuti, tanti visi ricchi di storie, tanta umanità, solidarietà e molteplicità.

Il ragazzo di fianco a me è stato ricoverato dopo un dolore alla cassa toracica durante gli allenamenti di Karate. Ora sta bene e non esita mai nell’aiutarmi. Si alza per passarmi la bottiglia d’acqua per prendere la medicina, mi porta insieme alla moglie del signore anziano il tavolo da letto d’ospedale e mi passa il vassoio del mangiare che le infermiere ogni volta senza cura me lo lasciano dove non posso raggiungerlo per ovvi motivi. Ancora minorenne, è albanese, vive ufficialmente in Grecia con la famiglia ma studia a Bitola, prima città al di la del confine in territorio della Fyr of Macedonia, in uno speciale liceo di medicina. “L’anno prossimo voglio andare all’accademia militare”, mi dice. “Voglio diventare generale. E’ per questo che faccio questa scuola e karate”. Cosi una domanda mi sorge spontanea: “ma per quale paese?”.”Macedonia”, mi risponde, intendendo quella che per la Grecia è Fyrom. “Perché?”.”Sai io sono si albanese ma di etnia slava-macedone”. “Quella è la mia patria!”… Ah! … "Quindi - mi dico - sondo un po' il terreno". “Ma la crisi fa paura anche in questo settore?”. “Sai è un lavoro instabile”, mi risponde. “Le guerre si possono interrompere da un momento all’altro!”
… Slash… è stato come uno schiaffo morale quello che ho ricevuto sentendo questa frase. Questo ragazzo semplice, gentile, calmo, che passa il tempo sentendo musica con le sue cuffiette del I-pod, che ha una famiglia umile che dopo mezza giornata mi ha già invitato ad andare a casa loro nella Prespa albanese. Proprio questo ragazzo non ancora maggiorenne ha in testa la guerra, sa che vuole farla e soprattutto che non vuole farla terminare. Sconvolgente! Ma mi fa capire anche meglio cosa si voglia dire con la frase “i Balcani sono la polveriera dell’'Europa!”. Poi il giovane continua: “So perfettamente l’albanese, il greco e lo slavo-macedone, oltre che ad aver vissuto in tutti e tre questi paesi: i Balcani sono il mio posto!” Anche il padre parla queste tre lingue. E’ un contadino emigrato dalla Prespa albanese a quella greca 15 anni fa per lavorare nei campi. Ora invece vive e lavora nella città di Florina con la moglie. Con lui parlo spesso, ridiamo, è sempre disponibilissimo nell’aiutarmi ed entusiasta mi fa anche parlare al suo telefono con un amico che abbiamo scoperto di avere in comune. Insomma, quella del ragazzo è una famiglia come tante.

I veri infermieri nell’ospedale sono i visitatori, per questo possono entrare quando vogliono. E’ stato il mio amico addirittura a portarmi sul lettino fino a dentro la stanza delle radiografie dopo che cinque o sei del personale sanitario che erano intorno a me fino ad un momento prima sono spariti. Solo un infermiera era rimasta: quella che serviva per indicare la strada! Il mio amico è stato anche l’ultimo a lasciare quella stanza. Quando la prima notte ho richiesto qualcosa in cui urinare mi è stata poggiata in un posto irraggiungibile per le mie condizioni una busta di plastica che con enorme fatica sono riuscito a portare a me. E quando ce lo fatta mi sono accorto che era impraticabile e che logicamente non poteva essere realmente chiusa. “Quando hai finito mettila a terra”, mi aveva detto l’infermiera prima di correre via. “Ma come c… faccio se non riesco a muovermi?!”. Non riuscivo ad appoggiarla in nessuna posto e lasciarla cadere per terra significava fare un disastro. Cosi quando ho provato con l’unico braccio semi-utilizzabile di suonare il campanello lasciando il sacchetto, inevitabilmente ho fatto un piccolo danno… che addirittura il giorno dopo mi è costato un rimprovero: “guarda che queste lenzuola sono le ultime!”...
Anche per il cibo i problemi sono simili. Non ci fossero stati sempre i miei amici e i famigliari dei miei compagni di stanza non solo non sarei riuscito a mangiare ma neanche a sfiorare il vassoio che costantemente mi veniva messo lontano: da notare che per il reparto giravo con la carrozzella. E non è tutto, fosse stato per loro il primo giorno l’avrei fatto senza alimentarmi nonostante avessi già fatto tutti gli esami e senza antidolorifico, questo è arrivato dopo più di 24 ore.

D'ALTRONDE GIA' IL VIAGGIO IN AMBULANZA E' STATO L'ANTEPRIMA DI UN ESPERIENZA FUORI DAL COMUNE

Appena avvisata della mia caduta Elie, amica e collega di noi volontari, è subito corsa a casa nostra. Io non riuscivo a muovere minimamente il braccio senza urlare dal dolore. La caviglia destra era gonfia e non mi permetteva di camminare privo di aiuto e dalla stessa parte del corpo sentivo male anche alla natica. Insomma ero uno straccio. “All’ospedale!”, tutti hanno detto. “C’è un problema però” dice Elie, l’unica persona provvista di macchina. “Non ho per niente benzina!”. E ciò non è un problema da poco se come in questo caso ti trovi a Prespa ed è l’una di notte! L’ospedale più vicino, che è in città, dista 60 km. Dimenticandosi il self-service che qui non esiste, ci sono solo due benzinai, tra l’altro a 500 metri l’uno dall’altro, nel raggio di 60 km che ne diventano 90 per alcuni villaggi come Vrontero,ma che ovviamente di notte sono chiusi. 
Cosi siamo andati a Lefkona, il solo paesino dei 19 sotto il municipio di Prespa che ha un ambulatorio medico, l’unico sopravvissuto dei tre che c’erano fino a qualche anno fa sparsi per la regione. Qui c’è anche l’unica farmacia che sia mai esistita a Prespa e che ora ha poco meno di due anni. Pensate, fino a pochissimo tempo fa anche solo per un medicinale serviva fare un centinaio di chilometri tra andata e ritorno e 40€ di benzina visto che questa in Grecia costa anche di più che in Italia, +/- 1.75€, nonostante i salari siano la metà. Sia il dottore che l’infermiera erano molto giovani. Adagiandomi sul lettino mi hanno controllato ovunque, messo il collarino per prevenzione e a fatica attaccato la flebo visto che il giovane medico ha continuato a toccare l’ago fino all’ultimo momento che mi ha visto sull’ambulanza dimostrando palesemente insicurezza anche di fronte agli infermieri che con l'ambulanza erano venuti dall'ospedale per ovviare al problema del trasporto. Il viaggio fino a Florina è stato l’anteprima di un’esperienza fuori dal comune. I due infermieri sedevano davanti nell'ambulanza mentre facevano scherzi con l'altoparlante che comunicava con il retro e alzavano la musica per farla sentire. Dietro c'eravamo solo io e i miei due amici di qui che mi hanno seguito durante tutti quei giorni.

Una volta arrivato all’ospedale mi sono trovato subito accerchiato da sei o sette del personale: il dottore, con un altro alle sue spalle che lo seguiva ovunque senza parlare, alcune infermiere, i due dell’ambulanza con cui continuava il clima sdrammatizzante e un'altra dottoressa che sbadigliando di continuo e con due enormi occhiaie non nascondeva affatto di essersi appena svegliata. Il pronto soccorso era vuoto e l’impressione era davvero che gli unici svegli in tutto l’ospedale fossero li con me. Il dottore non vestiva con il camicie, non si capiva se non fosse in servizio o se semplicemente era li ma avesse voluto essere da un’altra parte. Non so perché ma il tutto non mi ispirava molta fiducia.
Nonostante i miei dolori, le mie urla e il fatto di essere sospettato di avere una frattura al braccio quella notte sono stato spostato in sette lettini diversi quando sarebbe bastato farlo solo per tre o quattro volte. 
Muovere il braccio per fare le lastre era una tortura, ci impiegavo minuti interi. "Non hai niente", mi hanno detto. "Solo botte, ma comunque per stanotte ti teniamo in ospedale" - Di conseguenza pensavo positivo nonostante il dolore -. Cosi in quattro e quattr'otto e senza neanche un anti-dolorifico mi hanno lasciato in una stanza e alla mattina, altre radiografie: “Sei fortunato ragazzo”,”niente è rotto”, mi hanno ribadito. “Tra mezz’ora veniamo nella tua stanza e te ne potrai andare!”… E fu cosi che di ore ne passarono quattro o cinque fino a quando uno staff di cinque o sei tra infermieri e dottori è arrivato: “Ti ingessiamo il braccio", mi dicono. "Ma come?". "Hai una microfrattura al gomito che non potevamo vedere”.”Starai una notte in più!”
Lasciando stare che mi sono pure state rubate le scarpe nella saletta del pronto soccorso dove sono stato visitato e dove c'era rimasto solo il personale sanitario, tutti, ma proprio tutti, mi parlano male di questo ospedale. "Le ostetriche per esempio, mancano da più di tre anni", mi dicono. "E per questo le famiglie vanno a partorire in altre città". "Non ci sono bravi medici", “l’ospedale è in queste condizioni solo perché è in Florina, nell'ultima città del paese”. E allora a Prespa? "Delle cavie ci sentiamo, lo sai?!", mi dice il mio amico. "I dottori dell'unico ambulatorio medico sono tutti giovani perchè è qui che lo Stato li fa fare il primo anno di formazione sul campo". "L'unico ospedale che abbiamo mai avuto è quello in una grotta durante la guerra civile del '45-'49". "Prespa non è Grecia - continua il mio amico - nel senso che siamo considerati gli ultimi degli ultimi". "E ora con gli ulteriori tagli per la crisi sarà sempre peggio..."

giovedì 3 novembre 2011

DIARIO DI VIAGGIO – Martedì 01/11/11


“Il contenuto”, mi dice il reporter con anni di esperienza che ho incontrato stamattina in biblioteca a filmare le attività con i bambini che facciamo noi come organizzazione. E’ greco ma parla gran bene l’italiano. “Mancano di contenuto oggi i reportage perché i tempi sono sempre stretti e i lavori devono essere fatti troppo in fretta”, come se dicesse che i documentari ora non siano pensati ed elaborati abbastanza. “Il mio lavoro mi piaceva fino a cinque anni fa!”.
“Il contenuto”: questa frase mi ha colpito o meglio ispirato. Anche perché detta da una persona competente che mi ha suscitato fiducia e che ho ammirato nonostante l’abbia conosciuta per pochi minuti.
Devo puntare a questo quindi! Trasmettere nei reportage nel miglior modo possibile e con il tempo dovuto i sentimenti genuini che già vivo in giro per il mondo ormai da diversi anni. Dopo giri dell’Europa, Asia e America Latina ora è arrivato il momento di raccogliere i frutti e raccontare veramente le fantastiche avventure passate, perché dopotutto anche Marco Polo e Cristoforo Colombo si sono differenziati da altri che li hanno preceduti “solo” per il fatto di aver raccontato e riportato. Ci devo lavorare tanto a cominciare dal tirar fuori quei diari di viaggio impolverati sulla mensola. Saranno 7, 8 o 9, o giù di li. Sarebbe bello iniziare cosi… ed è giunto il tempo di farlo… d'altronde metà del lavoro è già fatto: i libri sono già scritti.
E se poi anche a me ad un certo non piacerà più farlo… beh, non ci penso. Credo che sarò comunque soddisfatto dalla vita come lo sono sempre stato. Non è che non ascolto chi mi “disincentiva”, anzi faccio veramente tesoro delle loro esperienze per illuminare la mia strada alternativa.

martedì 1 novembre 2011

LA VITA E’ UN’AVVENTURA NON GIA’ SCRITTA MA TUTTA DA SCRIVERE


Domenica 30 ottobre – Oggi è stato il giorno di una bella escursione con Pilar e Charlotte. Doveva esserci anche Ania ma era ancora un po’ malata. Una volta arrivati nel villaggio di Vrontero con tre passaggi in autostop, peraltro immediati, abbiamo incominciato a chiedere in giro del sentiero per il paesino di Pili. “Certo che se ascolti solo la prima persona, rischi veramente di non fare tante cose!”, dice Pilar. Questo perché la signora a cui per prima avevamo chiesto ci aveva risposto che non ce n’erano di sentieri. E non solo, anche l’ultimo che ci aveva dato il passaggio in macchina, uno con cui gioco a calcio nella squadra del Prespa, ci aveva detto lo stesso. Cosi solo al terzo tentativo usando un po’ di testardaggine ci siamo sentiti dire “si, lo so!”, “proseguite per questa strada, alla chiesetta piccola girate a destra e lo vedrete”. 
Il cammino era un continuo dipinto d’autunno: monti, rocce, alberi ed arbusti di tutte le sfumature tra il rosso, l’arancio, il verde e il marrone. La terra, di un rosso scuro, forte come quei vecchi mattoni d’argilla. E poi il lago, la sua vista tra le montagne e i villaggini che si intravedevano. In un orchestra di tranquillità io intanto viaggiavo con la mia mente. Pensavo a quanto mi piace vedere le due isole del lago Micri Prespa da diverse prospettive. E’ forse la cosa che più mi piace fare a Prespa… chi lo sa, probabilmente perché non tutte le prospettive sono facilmente accessibili per via delle frontiere! Dopotutto faccio parte di quella che definirei la“generazione delle fotocamere digitali”, abituata a vedere tutto e cresciuta senza confini e restrizioni nel visitare quasi qualsiasi posto. Senza rendercene conto siamo “la generazione più viaggiatrice” della storia. Prodotto, buono, della globalizzazione che dà al viaggio, e con lui l’estero più in generale, anche il ruolo di valvola di sfogo per tanti giovani che altrimenti soffrirebbero il precariato dei tempi nostri nelle proprie case a nutrire chissà quale repressione. Il viaggiare dà sorrisi, fa conoscere le persone e sorpassare i pregiudizi anche su diverse culture. Senza rendercene conto siamo infatti per tanti versi anche la “generazione più pacifica” della storia, un po’ per il nostro livello educativo mediamente il più alto di sempre e un po’ appunto per la nostra voglia di vedere con i nostri occhi e conoscere. Lo dimostrano anche i nostri cortei nella maggior parte del mondo che se confrontati in termini di violenza a quelli degli anni ’60 e ‘70, a cui partecipavano anche chi ora dall’alto dei parlamenti ci giudica e rimprovera, sono tranquilli come i bravi studenti della prima fila che in classe ascoltano ma alzano anche la mano per parlare. Siamo anche molto avventurieri perché in questo mondo instabile non potremmo fare altrimenti. Sappiamo sempre meno dove vivremo, con chi, quale lavoro faremo, se i nostri anni di studi sono stati utili (forse “solo” per averci insegnato a dialogare)… Abituati ad una vita di incertezze. A cosa crediamo quindi noi ventenni? Forse solo che “la vita è un avventura non già scritta ma da tutta da scrivere”, o almeno questo vale per me.

Camminando pensavo anche al mio futuro. Vorrei fare il reporter in giro per il mondo con una certa continuità, perché ho già iniziato questa strada e so di potercela fare, e avere una sorta di ostello o campeggio con amici e cari in un posto bello, accogliente e tranquillo come Prespa e con tanto di associazione culturale. Sogno anche un carretto con l’asino che mi porti dove voglio, che elimini il tempo e i pensieri… “sfruttare” anche l’utilità dimenticata degli animali! Avere un paio di cani, magari quelli che ho già qua con gli altri volontari o forse almeno uno più grande. Mi viene in mente l’immagine di frate Tac, quello di Robin Hood, sul carretto che beve il vino mentre il suo mulo lo porta in giro J… bellissimo!
Dato che qui a Prespa vivo in una casa dalle cinque nazionalità che ogni giorno mi permette di assaggiare piatti tipici di vari paesi, mi viene in mente anche una cucina internazionale nell’ostello, o campeggio che sia. Magari anche solo proposta un paio di volte alla settimana. Cibi greci, italiani,  spagnoli, polacchi, francesi, portoghesi: sarebbe di successo! E poi, anche una saletta per le feste o un piano bar perché mantenere vivo il locale è la cosa essenziale e farlo frequentare anche dalla gente del posto, l’attrattiva migliore. A Prespa sarebbe suggestivo attuare questo progetto nel paesino abbandonato di Millionas per avere un villaggio intero a disposizione. Ma strategicamente la spiaggia di Kula è il top con la sua fantastica vista sul grande lago che ti fa sembrare di vedere il mare, il via vai di pellicani proprio sopra la tua testa, una taverna già avviata da anni e anni e una struttura grande di bagni costruita per quando i turisti venivano qua in tanti fino a dieci anni fa. Ci sono anche alberi dove mettere sotto le tende e un piccolo palco dove questa estate si sono esibite band greche in occasione del primo Music Festival di Prespa. Probabilmente questa idea sarebbe più realizzabili sotto la gestione dell’organizzazione per cui lavoro, “Ctp”, perché essendo permanentemente sul posto potrebbe creare un progetto solido, anche solo per le estati, che tra l’altro terrebbe fede agli scopi culturali e di sviluppo del turismo… però ovviamente non è facile… come sempre servono soldi!

Il bello di Prespa sono anche le sue disavventure. Ogni giorno ne succede una diversa, ma proprio ogni giorno! Ed è appunto per questo che ormai ci ridiamo sopra, sempre! L’organizzazione nei lavori è un optional di lusso, quando ti va bene le cose le sai l’ultimo giorno…

… Nel frattempo la camminata continuava nella sua avventura di tranquillità. Avremmo potuto imbatterci in lupi o orsi con più probabilità che in altre zone della riserva, ma cosi non è stato… a nostro rammarico. Nonostante ore nella natura selvaggia attraversando sentieri stretti, l’unica cosa è stata: escrementi freschi di un animale della taglia di un lupo.
Senza conoscere il percorso e non muniti di mappa ad un certo punto c’è apparsa la strada. La rotta era stata giusta ma sfortunatamente già finita. Ma questo non ci ha fermato, passando attraverso campi di fagioli senza esitare abbiamo puntato dritto sulla grande scalinata che si arrampicava sul colle di fronte a noi. Non finiva più! “Ci sarà una chiesa in cima dopo tutti questi gradini!?”, “di sicuro”, ci dicevamo. Ma non è stato cosi. Era una grotta, bella, grande, ideale anche per accedervi un grande fuoco e scaldare l’ambiente. Abitabile, insomma. Infatti nel centro aveva una buca rotonda scavatasi con il consumarsi del terreno probabilmente per la presenza perdurante di un fuoco. Avevo letto di ritrovamenti nell’area risalenti al paleolitico. Chi lo sa, può darsi ci vivessero dentro due milioni di anni fa. Ciò che è sicuro è che i ribelli comunisti ci nascondevano le armi durante la guerra civile greca del ’45-‘49 (avevo già letto riguardo alla grotta, ma avevo scordato che fosse da queste parti).

Dopo le classiche fotografie, con un po’ di stanchezza addosso ma con sorrisi soddisfatti sul viso abbiamo preso la strada di casa. Il primo passaggio c’è stato dato da Antonies, un amico che vende fagioli con un banchetto a Psarades. Il secondo da una coppia di Larissa in visita. Una volta a Laimos tutti e tre ci siamo catapultati in biblioteca per pulirla dalla “Cultural night” della sera prima dedicata alle presentazioni di Francia e Polonia in quanto i paesi degli ultimi due volontari arrivati.
C’eravamo divertiti: proiezioni di presentazioni-video, musica, mangiare e bere tradizionali e tanta compagnia, all’inizio con i bambini del posto, poi esclusivamente con il gruppo di ragazzi albanesi che qui viene a lavorare nei campi per un massimo di sei mesi all’anno.

Poi come sempre da Rundos, l’amico più importante per i contatti ormai saldi che abbiamo creato con i locali. Lui che pur di averci nella sua taverna ci offrirebbe l’anima, oltre a tutte le bottiglie dietro il bancone. Siamo fortunati noi volontari qui a Prespa. E chi lo sa, forse siamo anche bravi, se è vero che la fortuna la devi saper trovare. Con gli altri tra un po’ andrò a mangiare dai vicini che stamattina nel cortile avevano due maiali scuoiati appesi e un tavolo di legno sul quale lui, il marito, stava tagliando chili e chili di carne. Sarà un’altra avventura alla Prespa, una di quelle capaci a fermare il tempo…